venerdì 31 maggio 2013

La rubrica letteraria

Cate è soffocata dal pregiudizio dei pregiudizi nei suoi confronti.
Cate è intelligente, sensibile, matura, acuta e graffiante. Strizzata nei suoi 17 anni esplode nei chili del suo corpo, per lei, esagerato.
Cate, fuori dal nido rassicurante della propria famiglia, percepisce solo il mondo cinico che la sbeffeggia per il suo troppo. Non si sente accettata poiché lei rappresenta l'anti moda, l'anti bellezza, l'anti normalità.
Così Cate diventa una non persona, annulla se stessa e la propria ricca personalità per far posto al rancore verso chi le offre amicizia, amore.
Non riuscendo ad esternare l'amarezza, tradita dall'unica persona verso cui  prova ammirazione, incapace di chiedere comprensione ai propri familiari, si aggrappa ad una soluzione tragica.
Cate, rimasta al buio, per la prima volta coglie le luci intorno a sé. E sono così tante da lasciarla stordita. Sorrisi, affetti che sono sempre stati lì ma che lei non voleva vedere perché lei è grossa ed i grossi non possono avere affetti normali.
Scritto da Matteo Cellini e pubblicato da Fazi, "Cate, io", affronta un problema più che mai attuale in un mondo in cui si misura il valore umano in base al giro vita. In questo contesto spesso ci si dimentica dei giovanissimi che non possono avere la dose di autoironia necessaria per affrontare se stessi prima degli altri (spesso manca agli adulti stagionati). 
La fragilità interna a volte si può camuffare ma se è lì esposta agli occhi di tutti, visibile in un corpo magrissimo oppure obeso, in un difetto fisico o in un'imperfezione allora ogni nuovo giorno si trasforma in una nuova agonia. 
Consigliato.
Ok!

venerdì 24 maggio 2013

Spazzatura, grazie

E' notizia del telegiornale di qualche giorno fa; Norvegia e Svezia utilizzano i rifiuti per riscaldare le case, le scuole, gli uffici ma poiché coltivano al contempo la diligente arte del riciclo, tutto sommato di immondizia non ne hanno nemmeno troppa e così rischiano di restare al freddo.
Questo è davvero un problema cui non avrei mai pensato, specie sulla base di tali presupposti. 
Credevo, forse ingenuamente, che lo smaltimento dei rifiuti costituisse un grattacapo un po' per tutti i paesi, chi più, chi meno. Insomma, siamo tanti e di scarti ingombranti ne produciamo molto più di quanto siamo in grado di smaltirne in generale; è un dramma concreto, le discariche sono stracolme, per usare un eufemismo, bisognerebbe dire: sul punto di emettere gayser di spazzatura che per quantità potrebbe raggiungere lo yeti sull'Everest, comprese quelle improvvisate nelle campagne e persino nelle città. 
Certo sapevo che i paesi nordici hanno una spiccata coscienza ambientale da sempre ma davvero non avrei mai immaginato potessero essere angustiati dal dilemma della non-spazzatura. Mi pare quasi un'esagerazione.
Invece è una realtà ed i norvegesi hanno chiesto a noi un po' dei nostri rifiuti, visto che vantiamo una certa supremazia (in italia una singola persona produce circa 1,4 kg di rifiuti al giorno; considerando tutta la popolazione arriviamo ad un totale di 26 milioni di tonnellate all'anno), dopo averla già importata da altri paesi. Ragazzi, scusate, ma devo ripetere il termine importare per convincermi che sia vero ed al contempo trattenere una risata amara.
Ho sentito polemiche al riguardo perché l'operazione esigerebbe un costo da parte nostra. In effetti, verrebbe da pensare che siano i richiedenti a dover pagare la merce prelevata, ma io, dotata dell'ingenuità di Peppa Pig, sono ineluttabilmente condannata a ritenere che se il risultato fosse un paese più pulito, magari ne varrebbe la pena. Sarebbe un po' come dare un compenso per un lavoro eseguito; il lavoro va pagato no? O almeno dovrebbe essere così. Qui non si tratta di carote e cipolle ma di spazzatura che se andrebbe via da noi ed in più per il nobile compito di produrre calore e riscaldare famiglie.
Varrebbe la pena di trovare un compromesso che accontenti le parti.
Prendetela così, oggi ho deciso di salvare il mondo.













martedì 14 maggio 2013

Percezioni


Tutti avevano ormai imparato a conoscere ed apprezzare queste peculiarità della dolce signora che mandava avanti l’unico luogo di incontro del villaggio: la Fucina di Mava, così lo chiamavano.
La Fucina non era solo il posto in cui i lavoratori si fermavano a mangiare o i forestieri a rifocillarsi prima di ripartire ma era anche l’edificio religioso della comunità, l’ospedale, l’asilo e il salone delle feste.
Un piccolo mondo per una piccola comunità. La gente del villaggio viveva con ciò che la natura offriva ed era riconoscente ad essa così come poteva esserlo un bambino nei confronti dei genitori da cui era stato cresciuto ed amato; un rispetto dovuto e voluto verso un’autorità che donava e puniva, un’entità che fortunatamente sfuggiva al controllo degli esseri viventi. E questo loro lo comprendevano bene e più di tutti lo comprendeva Mava.
“Buongiorno Mava!”
“Buongiorno a te Falia. Siedi qui, ho appena preparato il takquò per oggi” disse versando il liquido nero in una tazza bassa e rotonda, dopodiché depose la caraffa in cui, per poter realizzare il takquò, aveva mischiato il liquido nero del wakra con una bevanda ottenuta dal succo di una radice rossiccia e di altre erbe di cui solo lei conosceva i nomi astrusi.
“Grazie davvero, vengo ora dalla Mano Celeste e sono proprio stanca. Mi sono alzata all’alba per accompagnare mio marito là ed aiutarlo nel suo lavoro. Lui si ostina a non ammetterlo ma soffre molto per il dolore alle ginocchia e alle caviglie ma non vuole assolutamente che io prenda il suo posto! Eppure ci sono molte donne che lavorano laggiù! E poi conosco bene il procedimento, sai che l’ho fatto per alcuni anni prima di sposarmi!”.
Mava guardò con dolcezza la donna robusta con i capelli color castagna raccolti sulla nuca in un ammasso di ricci ribelli, si avvicinò con la tazza e si sedette accanto a lei.

giovedì 9 maggio 2013

La rubrica letteraria

"Nessuno sa di noi" è il titolo del libro di Simona Sparaco, pubblicato da Giunti, uno tra i candidati al premio Strega di quest'anno.
Di solito non amo leggere libri che trattano argomenti psicologicamente toccanti, non tanto per leggerezza ma perché potrei stare piuttosto male (se già mi commuovono i cartoni animati... ) ma quando il libro è scritto bene, allora il magone rimane sospeso sopra le righe, sopra le parole mentre tu vieni inghiottita dalla storia e vuoi sapere cosa succederà, come i fatti verranno affrontati, cosa avresti fatto tu in quella situazione e soprattutto ti soffermi a pensare almeno per un attimo alle persone che ci sono già passate.
L'argomento è l'aborto terapeutico ed io come donna ho vissuto la vicenda di Luce, la protagonista, con grande partecipazione emotiva. Mentre leggevo, ero lì, nell'appartamento di Luce e Pietro a voler dare una mano, magari consigli, se avessi saputo cosa consigliare. I bambini dovrebbero stare bene, sempre e comunque, anche quando non sono ancora nati, il sapere che possano non esserlo, che una volta nati non avranno la possibilità di correre, saltare, fare i bambini perché fisicamente impossibilitati a farlo, destinati ad una vita breve e dolorosa, è qualcosa di lacerante. Anche solo parlarne sembra ingiusto e sbagliato, come si fa a decidere l'indecidibile?
Profondo, umano, ben raccontato, al punto che è stato difficile mettere da parte il libro per dedicarsi ad altre faccende.
Ok.. issimo

"Quattro etti d'amore, grazie", di Chiara Gamberale, Mondadori è il racconto di due vite attraverso le parole delle stesse loro protagoniste: Tea ed Erica.
Tea l'attrice, la magra, l'affascinate protagonista di un'esistenza dorata, secondo la visione di Erica che la osserva di nascosto quando ha occasione di incrociarla nel suo stesso supermercato ed Erica, la donna baciata dalla sorte, moglie felice, madre orgogliosa, cuoca superlativa, nella mente di Tea che l'ha persino soprannominata signora Cunningham, la casalinga perfetta.
Entrambe si sbirciano timide senza mai parlarsi, senza mai conoscersi veramente, eppure ognuna con un'opinione ben precisa su come debba essere meravigliosa la vita dell'altra.
Ovviamente nessuna delle due donne può in realtà vantare una tal fortuna, anzi i problemi sono tanti, gli strascichi emotivi di adolescenze difficili, traumi, mal di vivere scuotono le menti, maltrattano i cuori... proprio di entrambe.
Insomma, "l'erba del vicino è sempre più verde", il tutto narrato non sempre con fluidità e scorrevolezza; spunti brillanti che fanno riflettere ma che a volte si perdono nelle  parole stesse, secondo il mio modestissimo parere.
Attendo altri punti di vista!
Ok... meno.



mercoledì 1 maggio 2013

Percezioni


Un lungo bancone di legno occupava un lato della stanza, dietro ad esso, su una serie di mensole, stavano ben ordinate tazze di diverse dimensioni, bicchieri di vetro colorato, teiere dalle fogge bizzarre con manici a forma di fiore o albero, dal collo allungato come quello di un regale cigno o molto panciute, tutte con variegate tinte pastello. Accanto alla tenda blu che separava la sala dalla cucina un’enorme credenza conteneva tegami, ciotole e recipienti in terracotta che alla vista apparivano azzurrati così come i vetri delle ante dietro cui erano disposti.  Su alcuni scaffali a lato della credenza erano allineati barattoli rotondi ottenuti da una pietra dura e levigata simile ad alabastro. Nonostante fossero chiusi da coperchi rotondi a forma di pagnotta dai barattoli fuoriuscivano aromi stuzzicanti e pungenti di spezie, erbe, piante medicinali. O almeno questa era l’impressione degli avventori ma in realtà solo Mava sapeva esattamente cosa contenessero i recipienti; essi non recavano etichette o segni di riconoscimento particolari  ma lei non ne aveva bisogno, ne sentiva l’essenza attraverso le narici, sulla pelle.
Più di una volta qualche ragazzino aveva spostato per burla uno di quei barattoli nascondendolo in cucina o in uno degli scaffali chiusi dietro il bancone sperando di  vedere Mava perdere la sua naturale tranquillità e scervellarsi alla ricerca del prezioso oggetto, ma erano rimasti sempre delusi perché la placida donna andava sempre a colpo sicuro nel luogo dove era stato riposto segretamente come se lo avesse messo là lei stessa, senza nemmeno voltarsi a guardare il ripiano dove era naturale che stesse e dove era sempre stato.